Approfondimento periodico: La stupidità del male. Storie di uomini molto cattivi di Ermanno Bencivenga .

Il Inserito in Approfondimento.

Il male? C’è, ma è stupido

 

Perché c’è il male nel mondo? Perché commettiamo il male? Ma, il male, che cosa è?

Alzi la mano (virtualmente) chi non si è mai posto queste domande di fronte a una tragedia della storia, a un torto subìto, alla oggettiva cattiveria di un comportamento (anche sulla “oggettività” del male e del bene ci sarebbe da discutere: esiste un criterio “oggettivo” per decidere cosa è bene e cosa è male?), ma anche alla pandemia che stiamo combattendo in questi giorni… Perché, per citare la narrazione biblica di Genesi 3, a un certo punto, al centro del nostro sguardo si colloca non più l’albero della vita, ma l’albero della conoscenza del bene e del male?

Una risposta interessante – e motivata con rigore – ad alcuni degli interrogativi sul male, sulla sua esistenza e sulle “ragioni” che lo scatenano, ci viene dal libro di Ermanno Bencivenga (professore ordinario di Filosofia nell’Università della California) La stupidità del male. Storie di uomini molto cattivi (Feltrinelli, 2019).

Il titolo, scrive l’Autore nella Premessa, «è un omaggio: a colei che altrove ho definito il più grande filosofo del Novecento e che ha scritto un libro dal titolo analogo – per quanto nell’originale quello fosse solo il sottotitolo, bene ha fatto la traduzione italiana a invertire l’ordine dei valori, perché era il sottotitolo a dare un senso al libro. L’omaggio è dovuto a questa nobile Jewish princess non solo per l’ammirazione e il rispetto che le porto, ma soprattutto perché qui mi metto al servizio della tesi che lei ha espresso, che in generale non è stata capita e che io cerco di illustrare nel modo più chiaro possibile». L’omaggio è, ovviamente, a Hannah Arendt e al suo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, resoconto del processo al criminale nazista Adolf Eichmann, celebrato nel 1961, scritto dalla Arendt inviata del New Yorker; il titolo originale, come Bencivenga sottolinea, era Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil e l’editore italiano (Feltrinelli) lo ribaltò efficacemente.

Il libro del professor Bencivenga, dunque, propone e sostiene una tesi «difficile e controversa»: il male c’è, ma «è stupido o banale»; «non ha dignità intellettuale». Conosciamo ed elaboriamo diverse teorie del bene, ma nessuna teoria del male: di esso sperimentiamo gli effetti, ma non ne esiste alcuna giustificazione razionale.

C’è una «logica dell’accadere: quel che accade non accade a casaccio ma in ossequio a leggi generali», ed essa «ha un ruolo prestigioso e decisivo nel nostro approccio alla natura». «Oltre a ciò che accade, o più semplicemente è, molti prendono sul serio l’idea di ciò che deve, o dovrebbe, essere o accadere, e se ne servono per giudicare ciò che accade. (…) Quando si prendono posizioni simili, si sta passando da un piano descrittivo (che descrive ciò che è o accade) a un piano normativo (che enuncia regole, o norme, su ciò che dovrebbe essere o accadere) e si stanno introducendo, più o meno direttamente, parole che con una descrizione non hanno nulla a che fare: si dice che ciò che dovrebbe essere o accadere è bene o è giusto. (…) Anche il piano normativo (che se ne accetti o meno la legittimità) ha una sua logica, che potremmo chiamare la logica del bene o della giustizia, ed essa è tanto ben strutturata, ricca di dettagli e informativa quanto la logica dell’accadere».

Il male, invece, esiste, ma «non ha dignità intellettuale: non ci sono teorie del male che siano lontanamente paragonabili, per spessore e ricchezza di dettagli alle teorie del bene» che l’Autore richiama e sintetizza con chiarezza. «Se per un atto benefico è possibile fornire una giustificazione, cioè certificarne la giustizia, nulla di simile è disponibile per un atto malefico. Del male sappiamo solo quel che (per negazione) ce ne dicono le teorie del bene. (…) Il male è stupido, o banale per usare l’espressione di Arendt: chi voglia dare conto di un suo atto malvagio lo farà usando frasi tautologiche, opache, prive di contenuto e digiune di informazioni, inette a crescere e a svilupparsi in un senso qualsiasi. Frasi alle quali l’autore dedica i quattro capitoli del suo libro compresi fra l’Introduzione e la Conclusione: «Faccio il male perché mi serve, perché mi piace, perché è male o perché non posso farne a meno».

In questo invito alla lettura non possiamo (e non dobbiamo) dar conto dello sviluppo della dimostrazione della tesi sostenuta, esposta a partire da alcune «storie di uomini molto cattivi». Diremo soltanto che nel capitolo intitolato «Perché mi serve» è messa a fuoco la figura di Hitler con citazioni del Mein Kampf e un’analisi illuminante; ci sono poi il Marchese De Sade (ovviamente in «Perché mi piace»), Isidore-Lucien Ducasse, autore dei Canti di Maldoror («Perché è male») e Twilight, il dottor Jekill e altre storie («Perché non posso farne a meno»).

Sembra utile, però, evidenziare che l’Autore (la cui fama di logico, di storico della filosofia e di filosofo della morale certo non è usurpata) spiega nelle pagine introduttive come la tesi della stupidità del male sia vittima di alcuni fraintendimenti, di cui i principali sono due.

Il primo equivoco nasce dal fatto che la tesi «viene spesso confusa con un’altra: si pensa cioè che essa dica che il male non esiste» (rifacendosi a Plotino). Ma questa è, invece, un’altra tesi, diversa, e «implica che, siccome il male non esiste e l’Olocausto esiste, l’Olocausto non è male (ed è comprensibile che chi ha inteso così quel che scriveva Arendt si sia sdegnato). La nostra tesi (mia e di Arendt) è che l’Olocausto è male, non però in un senso diverso da quello in cui sono male un terremoto o una valanga». Non c’è male fisico e male morale: «Per noi la distinzione viene a cadere – il male è soltanto fisico, o generalmente empirico (in quanto l’empiria include, oltre alla fisica, anche la psicologia) – e un giudizio morale negativo viene dato non su singoli eventi, (…) ma sulla globale estraneità di tutto il male alla logica del bene».

E andiamo al secondo fraintendimento: «Tornando all’Olocausto e alla lettura che Arendt dà del processo a Eichmann, quando lei dice che il male lì messo in luce è banale, o io dico che il male, in ogni caso, è stupido, molti intenderanno quanto segue: Eichmann e gli altri ideatori ed esecutori materiali dell’Olocausto sono persone stupide, ottuse sotto l’aspetto cognitivo e/o sotto quello emotivo – incapaci di ragionare con la propria testa o di provare sentimenti: rotelline ignare di un meccanismo che non controllano o non capiscono, e che, essendo un meccanismo, non può controllare o capire sé stesso. Chi intenda così la nostra tesi la considererà pericolosamente (se non perversamente) assolutoria verso i mostri che hanno commesso questo crimine nefando, perché li libererebbe da ogni responsabilità individuale delle loro malefatte». Ma la Arendt non ha parlato «della banalità di alcune o molte persone, o della semplicità della loro psicologia. (Di Eichmann dice, esplicitamente: “Non era uno stupido”.) Ha parlato della banalità del male. (…) Le emozioni e i progetti in cui si è estrinsecata la soluzione finale riguardano il verificarsi di tale evento (o serie di eventi) che sarà compito di una qualche disciplina scientifica sviscerare e nei confronti del quale, dopo che sia stato sviscerato, la giustizia umana prenderà i provvedimenti che riterrà appropriati. Rimane il fatto che quelle emozioni e quei progetti non hanno nulla da dirci su una presunta essenza maligna (…)».

Il male, dunque, «non ha sostanza intellettuale, non ha nulla di specifico da insegnarci». L’Autore ha scritto questo libro perché vede un pericolo «che si è presentato in vari momenti di crisi della civiltà, ogniqualvolta la pena e lo sconcerto hanno evocato presenze demoniache, magia nera e sortilegi, un principio del male che minacciava di imporci la sua legge. Avverto questo rischio oggi, avverto il fascino che molti sentono per questo spettro privo di contenuto, e scrivo il mio libro per combatterlo, come un libro esplicitamente antimanicheo. (Il manicheismo è una religione, e un’eresia cristiana, che in gioventù aveva tentato Agostino e che assegna pari importanza a un principio del bene e a un principio del male). Esiste il male ma non esiste un principio del male; il bene è da solo nello sforzo di sovrapporre la sua logica a quella del cieco accadere (…); il male risulta quando la sovrapposizione, sciaguratamente, non ha luogo e la storia rimane interpretabile, senza alternative, come pura successione di eventi (…). Il male ha una sua tragica realtà, ma non merita di esercitare alcun fascino intellettuale».

Speriamo di avere suscitato interesse verso questo libro insieme lineare e complesso, certamente impegnativo per la coscienza e per riflettere sulla propria visione della vita, e verso la tesi sostenuta dall’Autore, sviluppata ed esposta con rigore mozzafiato dalla prima all’ultima pagina.